«Il les envoie deux par deux ». (Marc 6, 7-13)
Quand Jésus envoie les douze en mission, il le fait par équipe de deux. Cette façon de faire est permanente dans l’Eglise. Elle indique que – si personne ne peut être chrétien à notre place – nous ne sommes jamais chrétiens tous seuls. Un peu comme dans un sport d’équipe : que penserait-on d’un coureur du tour de France, qui se contenterait de se laisser porter par le peloton sans jamais produire un effort personnel – effort différent pour chacun : certains sont des grimpeurs, d’autres des sprinteurs,… ? Pareil coureur passerait à juste titre pour un tire-au-flanc. Il en va de même dans l’Eglise : facile de faire reposer tout le poids de la mission d’évangéliser sur les épaules de l’évêque, du curé, des professeurs de religions, des catéchistes,… La question que chaque baptisé est invité à se poser est : et moi, quelle est ma part d’effort dans le peloton ? Seul celui qui prend sa part du fardeau – mission différente pour chacun – réalise pleinement sa mission de baptisé. Sans se mettre une pression inutile, cependant. L’évangélisation est pour chaque baptisé une obligation de moyen, pas une obligation de résultat. Autrement dit, nous sommes appelés à annoncer la Bonne Nouvelle, mais pas condamnés à réussir. Comme dans un sport d’équipe. « Si, dans une localité on refuse de vous accueillir et de vous écouter, partez en secouant la poussière de vos pieds ». Autrement dit : ne vous obstinez pas, mais poursuivez votre mission ailleurs.
Très intéressant, merci.
voici la lettre qui a eté ecrite par une femme que je connais bien de ma ville, journaliste, qui a voulu partager un peu de sa vie avec la fille belge qui a souhaité l’euthanasie. Le desir de Milly, l’autrice, etant que cette lettre puisse etre lue par l’interessée, il est souhaitable que vous puissiez en donner diffusion la plus ample.
Ero anch’io come Laura, sono stata anch’io come lei. E certo è per questo che la vicenda della ragazza belga raccontata da Tempi.it non può
lasciarmi indifferente. Perché, se all’epoca dei miei vent’anni, fosse esistita in Italia una legge come quella che vige oggi in Belgio, monarchia
almeno sulla carta cattolica, ora non sarei qui a raccontare. Ma partiamo da lei: Laura (secondo il nome fittizio che le viene attribuito
nell’articolo), una giovane di 24 anni, con alle spalle una vita difficile, tribolata, traumatica. Una vita sulla quale ha deciso di scrivere la parola
« fine ». La ragazza, che vive nelle Fiandre, ha infatti chiesto e ottenuto di essere uccisa con l’eutanasia:vuole morire perché da troppo tempo
è depressa, si è convinta che vivere non faccia per lei. Può morire, perché la legge introdotta di recente nel Paese, glielo consente.
La sua cronaca familiare racconta di un padre alcolista, violento, che « ha spaccato la famiglia fin da quando lei era piccola ». Senza cadere in
facili psicologismi, possiamo immaginare questa bambina, questa ragazzina, che cresce annaspando nello squasso emotivo di una famiglia
devastata. Un padre infelice, più che sofferente, e per questo collerico, aggressivo, violento. Una madre che immaginiamo altrettanto fragile
e infelice, incastrata in una relazione sentimentale distruttiva.
In questa famiglia molto disturbata, la bambina si fa grande con un’insaziata fame d’amore, ma al tempo stesso impossibilitata a credere in
quell’amore che le viene negato. Si fondano lì la disistima e l’incapacità di vivere con cui è cresciuta, come lei stessa afferma. « Non ho mai
voluto vivere », dice. E aggiunge: « Sono convinta che avrei avuto questo desiderio di morire anche se fossi cresciuta in una famiglia tranquilla
e stabile ». Perché, con modalità da manuale, questa « bimba » che si appresta a morire preferisce gettare la colpa su di sé, salvando
l’immagine dei suoi genitori. Che, purtroppo, le hanno negato la fondamentale esperienza dell’empatia, quella capacità di entrare in
relazione affettiva con gli altri, in primis la mamma e il papà, su cui si fonda la relazione con la vita stessa.
Per anni Laura ha urlato il suo dolore, con espressivi gesti autolesionisti: quando si tagliava, quando si scagliava di proposito contro i muri.
Unico sollievo il teatro, cioè la vita rappresentata sotto altre spoglie, e un improvviso amore. Omosessuale. Si appassiona ad un’altra donna,
probabilmente spinta dal bisogno di amare e di scoprire in lei quella se stessa che non riesce ad amare, quella se stessa che non conosce e
riconosce. Ma ogni puntello esterno è fragile, quando l’identità vacilla, quando le radici dell’esistenza affondano in un terreno paludoso e
sterile. Nella vita di Laura irrompe la depressione.
Ed è qui che la mia storia si intreccia alla sua. Avevo anch’io vent’anni quando mi fu formulata la diagnosi di depressione endogena, cioè
cronica e ricorrente. Pure, alle mie spalle, una vita drammatica, segnata da traumi violenti. Il suicidio, a ventiquattro anni, dell’amatissimo
fratello maggiore, di undici anni più grande, e, poi, la decisione del mio amatissimo padre, medico, malato di cancro, di togliersi la vita. La
depressione mi ha trascinata negli anni in un baratro sempre più oscuro, dove la tentazione di porre fine anche alla mia, di vita, per ben tre
volte mi ha travolta. Un incubo, tenuto, a stento, per molti anni a bada con farmaci tanto moderni quanto dannosi, e lunghe terapie
psicologiche. Un incubo, che per anni ho nascosto dietro un’impeccabile maschera mondana, in una vita apparentemente felice, fondata
anche su successi professionali e sentimentali. Ma quando la depressione è sembrata avere il definitivo sopravvento, sancendo l’apparente
fallimento della mia esistenza, ecco che, nella mia vita, imprevedibile e sconvolgente, ha fatto irruzione il Mistero. Quel Dio fattosi uomo tra
gli uomini che per tanto tempo avevo rimosso come un guastafeste, nella ricerca del piacere e del prestigio, mi si è presentato, con violenza,
come un Amore capace di liberarmi dai lacci che avevano reso invivibili i miei giorni.
Ora che di anni ne ho 58, posso guardare con commossa solidarietà alla vicenda di Laura. Ma guardo con orrore all’incoscienza di quei tre
medici, di cui uno appartenente a una nota associazione pro-eutanasia, che le danno ragione: « Dal punto di vista psicologico », affermano,
« soffre in modo insopportabile e quindi deve poter morire, se lo vuole ». Medici ignari del fondamento della loro professione, quella missione
per una relazione di cura da perseguire forti di un saldo convincimento: primo, non nuocere. E cos’è mai la morte terrena se non il massimo
nocumento? E non sanno, questi professori, che il suicidio è innanzitutto un disperata tentativo di comunicazione? Un grido d’aiuto che dice
il vuoto in cui un’esistenza si svolge, la mancanza e il desiderio di autenticità nella relazione con se stessi e con gli altri, il bisogno di sanare
ferite profonde? La cinica risposta data a Laura – « è giusto che tu muoia » – altro non fa che sottolineare la sua estrema condizione di
solitudine. Medici, dunque, che mascherati di falso pietismo si fanno, in realtà, carnefici dal bonario volto umano.
Quante contraddizioni nel loro racconto. Non hanno dubbi riguardo alla capacità di Laura di prendere una simile decisione: « E’ una persona
equilibrata », dicono. Non sanno, dunque, delle maschere con cui il depresso sa camuffarsi, della lucidità perversa che ha il sopravvento nella
sua mente, quando la sofferenza si fa intollerabile e in modo perversamente lucido si diviene disposti a tutto, pur di porvi fine? Ignorano che,
per quanto mascherata, la volontà suicida è sempre accompagnata da un angosciante, tenebroso travaglio? Dentro il quale non c’è libertà di
coscienza né può esserci libertà di scelta? Questi medici si sottraggono anche al compito principe dell’adulto: educare. Perché di fronte a
una giovane di 24 anni che dice « voglio morire », la risposta dell’adulto che educa può essere soltanto una: no!
Ma tutto questo, in realtà, non lo si può più sapere, quando si rimane incastrati dentro uno scientismo materialista ottuso: quello che riduce
la persona al suo sintomo, quello che non riconosce alcun senso alla dimensione della sofferenza, anch’essa ridotta a mero prodotto di
scambi biochimici cerebrali.
C’è stato un tempo in cui anch’io ho ridotto me stessa ai miei sintomi, e molte volte in cui sono caduta nella trappola di quell’ossessivo
pensiero autodistruttivo. So, dunque, come l’idea del suicidio si sappia insinuare, sottile, seducente, dentro la mente, fino a possederla.
Camuffata da unica, razionale, finalmente liberatoria soluzione.
Ecco perché la dimensione spirituale rappresenta la sola salvezza. Lo è di fronte a tutti i fallimenti che sperimentiamo nelle dimensione
mondana: se l’altro che amiamo ci abbandona, se l’amico tradisce, se perdiamo il lavoro, non si spalanca il vuoto. Nemmeno un padre e una
madre devastanti possono avere il sopravvento quando si vive nella percezione dell’Amore e della Misericordia divine, autentici balsami in
grado di lenire anche le più atroci sofferenze. Ridando senso, quel Senso, a ciò che nella vita conta davvero. Quel Bene che ci è stato donato,
che siamo chiamati a custodire e amministrare, nonostante i travagli, nonostante le sofferenze.
Questo, con amore, andrebbe raccontato, suggerito, a Laura, ascoltando e raccogliendo il grido con cui lei esprime il mostruoso non-senso
che la strazia. E, invece, in Belgio, tre medici hanno deciso di mettere a tacere quell’urlo offrendo, premurosi, un’iniezione letale.
Sia chiaro, non intendo far prediche: testimonio solo di una personale esperienza. Un’esperienza spirituale e al contempo concreta,
concretissima, che ha ridato libertà alla mia vita di “depressa endogena “, secondo la dura sentenza sanitaria. E’ per tentare di aiutare i tanti
che ne soffrono – e che possono uscire dalla fossa in cui si trovano – che in autunno uscirà un libro dove, raccontandomi, mostrerò come il
suicidio permesso e pagato generosamente dallo Stato non sia di certo la sola soluzione. Anzi, è la peggiore. Mentre la via di salvezza passa
dal Golgota, accettando il quale si può scorgere il mattino della Resurrezione.